«Nella legge sull’interruzione di gravidanza la parola “diritto” non esiste»: Francesca Izzo, femminista di «Se non ora quando-Libere», già deputata del Pd, non ha dubbi: «La sfera della vita non può essere organizzata e governata in termini di diritti. Perché a un diritto di aborto si contrapporrebbe il diritto alla vita del nascituro». Fu proprio questa consapevolezza a porre in contrasto, negli anni Settanta, le posizioni femministe con quelle radicali. «Le donne sanno che nella procreazione si mette in gioco una relazione e che hanno la responsabilità della vita nei confronti di chi non ha voce e deve venire al mondo», dice Izzo, consapevole però che una certa parte del mondo femminista odierno – le donne più giovani – ragiona in un altro modo.
La generazione di Francesca Izzo, quella che ha lottato per la legalizzazione dell’aborto, parlava semmai di «autodeterminazione», di volontà e scelta, in un processo complesso come è quello generativo, in cui si tengono insieme corpo e mente. Il paradosso è che lo stesso principio di autodeterminazione è stato stravolto dall’utero in affitto, un processo generativo spezzettato (l’ovocita, la gravidanza, il neonato sono elementi a sé stanti) in cui la donna-madre sparisce. L’equivoco è che esista un diritto al figlio. «Avere un figlio è una “potenza” inscritta nel corpo femminile e maschile, che può realizzarsi oppure no. Quella del “diritto al figlio” è una logica proprietaria. Un figlio può essere un dono o una grazia, un desiderio o un bisogno, ma la trasformazione di un desiderio in un diritto è inaccettabile».

*L’intervista a Francesco Izzo è tratta da Avvenire del 9 dicembre 2018 (di Antonella Mariani)
Commenta