Come sarà possibile un cambiamento sociale tra donne e uomini, se le prime non riescono neppure a nominare loro stesse?
Una donna velata, coperta dal burqa, è una donna la cui identità viene negata. Al suo posto c’è una macchia nera. Noi, donne occidentali, non riusciamo a capire e condanniamo come repressione patriarcale questa usanza che cancella le sorelle islamiche. Poco siamo disposte a capire quelle che orgogliosamente difendono l’uso anche del meno coprente velo islamico: il hijab. Eppure, non siamo neppure noi immuni dalle tradizioni che ci nascondono, ci mimetizzano. Non siamo immuni dalle tradizioni patriarcali “nostre”.
Il nostro burqua si chiama: parola. Linguaggio di genere. Quando, il 3 agosto di due anni fa, al termine della fiaccolata di protesta per il 46esimo femminicidio dell’anno, le donne che rappresentavano le Istituzioni hanno chiesto agli uomini di cambiare e alle donne di essere forti, di non accettare la violenza domestica, di denunciare, hanno tutte e continuamente usato parole-burqa. Le donne erano lì, presenti, in tante, eppure nei discorsi, nelle parole, erano invisibili.

Inaugurazione del Parco dei diritti delle bambine e dei bambini di San Donà (Foto Fb Francesco Rizzante)
Si chiede di essere viste, ascoltate, ma annullando, mimetizzando per prime la propria presenza. Sindaco, assessore, consigliere…no! Sindaca, assessora, consigliera…! Come sarà possibile un cambiamento sociale tra donne e uomini, se le prime non riescono neppure a nominare loro stesse? Ieri, all’inaugurazione del parco dedicato ai Diritti Delle Bambine e Dei Bambini, in tutti i discorsi pronunciati, le bambine e le ragazze sono state le grandi assenti. Nessuno e nessuna le ha mai nominate. Eppure tra il pubblico la loro presenza era maggioritaria. Da sole, volontariamente e talvolta caparbiamente, le donne occidentali indossano il burqa della parola.
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